PREMESSA
Non essendo più molto al corrente di speleologia “attiva”, limitandomi a far parte dello Speleo Club Seniores, ed avendo ricevuto l’invito da parte dell’attuale presidente dello S.C.R. a scrivere qualcosa a proposito della nostra spedizione al Gouffre Berger nel 1967 essendone stato uno dei componenti, ho ritenuto utile effettuare qualche ricognizione sul web al fine di verificare cosa ci fosse “on line” riguardo alla storia esplorativa di questa grotta. E a questo proposito ho dovuto constatare, lo dico in fondo senza neanche troppa meraviglia, una pressoché totale mancanza di citazioni riguardo alla peraltro non trascurabile partecipazione italiana. Nei vari siti consultati non c’è alcun accenno alla spedizione dello S.C.R. del 1967, e solo una semplice citazione dei nomi di Pasquini (peraltro storpiato) e Maucci fra i partecipanti alla prima spedizione che toccò il fondo nell’agosto del ’56. Non c’è inoltre accenno alle altre varie e successive spedizioni italiane più o meno fortunate. Dovizia di particolari invece, ad esempio, si trovano sulla pachidermica spedizione del britannico Ken Pearce che si introdusse in grotta un paio di giorni dopo che ne uscimmo noi vittoriosi. Con la differenza che la nostra spedizione, assolutamente e totalmente autofinanziata, era composta da tredici speleologi e da pochissimi quintali tra materiale operativo e logistico (quello che entrava in un furgone “Ford Transit” e che poteva essere trasportato sulle nostre spalle in grotta!), e la sua, sponsorizzata dall’U.K., disponeva di tonnellate di materiale e numerosi uomini trasportati da automezzi militari messi a disposizione delle autorità britanniche.
Come mai questo buio? Fra l’altro al Congresso Nazionale di Speleologia tenutosi a Roma nel ’68, furono presentate numerose comunicazioni, fra cui una mia, sul Berger, ’67.
E’ mia opinione che sarebbe opportuno che lo S.C.R., per porre rimedio a questa omissione, si indirizzasse non solo responsabili dei vari siti che trattano della grotta, ma anche alle autorità speleologiche francesi.
Io ignoro se esistano documenti ufficiali su carta stampata che riportino le nostre imprese (e quelle degli altri colleghi italiani che, sulla nostra scia si sono susseguiti nell’esplorazione della grotta), ma per quanto riguarda il web, che mi sembra obiettivamente una fonte notevolmente rilevante, le cose stanno così.
Nel 1967, Giorgio Pasquini era all’apogeo della sua carriera speleologica. Era Presidente dello Speleo Club Roma dalla sua fondazione risalente a circa dieci anni prima; era stato uno degli artefici della trasformazione del Corpo di Soccorso Alpino in Corpo Nazionale di Soccorso Alpino e Speleologico; aveva fornito un impulso determinante per la Scuola Nazionale di Speleologia, prima nell’ambito della S.S.I. e successivamente del Club Alpino Italiano. A distanza di una decina di anni dalla sua partecipazione, insieme ad un unico altro italiano, Walter Maucci di Trieste, alla vittoriosa spedizione internazionale alla grotta più profonda del mondo, decise che i tempi fossero maturi perché lo Speleo Club Roma si cimentasse nel tentativo di uguagliare quel record con una propria spedizione, interamente italiana e romana, che, nel caso di vittoria, avrebbe rappresentato un primato nazionale. Fu così che nacque il progetto Berger.
Per dare un’idea del nostro impegno in quell’impresa, credo sia opportuno fare un rapido e sintetico confronto tra le risorse che in quell’occasione mise in campo lo S.C.R., e quelle impegnate dieci anni prima dalla vittoriosa spedizione internazionale (per non parlare di quella britannica, immediatamente successiva).
La prima spedizione internazionale che raggiunse il fondo nel ’56 si avvalse, per ottenere il successo, di:
n. 46 speleologi di varie nazionalità;
4,5 tonnellate circa di materiale suddiviso in n. 218 sacchi (contando solo quelli della “Expédition préliminaire”);
n. 24 giorni (dal 15 al 23 luglio e dal 3 al 19 agosto del 1956).
Lo S.C.R. di:
n. 13 speleologi, tutti dello S.C.R. (Giorgio Pasquini, Gianni Befani, Paolo Befani , Italo Bertolani, Franco Burragato, Nicola Ferri, Paolo Langosco, Virginio de Lanzo, Luciano Maiello, Antonio Mariani, Alberto Moretti, Guido Saiza e Renato Testa)
6 quintali circa di materiale suddiviso in n. 30 sacchi circa;
n. 7/8 giorni, senza armamento preliminare.
Anche tenuto conto dell’evoluzione speleologica (peraltro non particolarmente rilevante) che c’era stata nel corso dei dieci anni intercorsi tra una spedizione e l’altra, mi sembra che dal raffronto lo S.C.R. esca in modo abbastanza lusinghiero.
E qui mi preme fare una breve digressione (oggetto peraltro di un mio intervento per il 40nnale dello SCR). In realtà il fatto che non si parli della nostra spedizione del ’67, non deve meravigliare più di tanto. Il modo di proporsi al mondo speleologico dello S.C.R., almeno nei suoi primi 10 anni di esistenza, che sono poi quelli da me vissuti direttamente, non ha mai favorito la sua “promozione”. Intendo dire che non siamo stati mai dei campioni nel divulgare le nostre conquiste, sia in campo tecnico che scientifico.
La nostra tecnica in quel periodo e in Italia era all’avanguardia: siamo stati i precursori nell’ uso di scalette superleggere, nelle progressioni in stile “corda doppia” anche per pozzi di gran lunga superiori ai 100 metri, nell’uso di mute subacquee al posto dei canotti, senza che tutto questo fosse mai oggetto di comunicazioni o pubblicazioni. E per queste tecniche a quei tempi eravamo molto criticati dagli altri sodalizi speleologici (che successivamente ne avrebbero fatto uso corrente). All’epoca era nota (e mal sopportata) la nostra “spregiudicatezza”, ma ora, a distanza di tempo, ci sarà chi si rammenta ancora, in campo nazionale, di quei nostri primati?…
Nel campo scientifico il nostro sodalizio era pieno di studiosi e cattedratici, ma il numero e l’entità delle nostre pubblicazioni scientifiche, percentualmente e rispetto agli altri gruppi, non fu particolarmente brillante.
Ma torniamo al Berger.
L’ingresso in grotta avvenne il 1.8 del1967 alle ore 12.
Arrivammo in zona quota -500 alle 6 del 2.8. dopo 18 ore di attività.
Montammo il 1° campo e, dopo dodici ore di riposo, alle 18 del 2.8 iniziammo a riprendere le attività.
Dopo 4 ore circa, intorno alle 22, quando tutti e 13 eravamo operativi ed era giunto il momento di ripartire, al capo spedizione Giorgio Pasquini toccò la decisione di dividere il gruppo in due squadre: una di 5 elementi sarebbe rimasta a quota – 500, mentre l’altra di 8 avrebbe proseguito verso il fondo.
Ripartimmo, quindi, ed intorno alle 3 del 3.8 (verso quota -600) arrivammo alla confluenza con la parte attiva della grotta, all’incrocio con “la fleuve sans etoiles” nel punto denominato Vestiaire. Da quel momento, per altri 600 metri circa di profondità, l’ambiente sarebbe stato pressoché sempre allagato.
Dopo una breve sosta, necessaria per indossare le mute stagne, ripartimmo alle 4 e alle 9.30 del 3.8, dopo 15.30 ore di attività, raggiungemmo la sala Eymas, a quota -800, sede del 2° campo. Due ore per sistemarci ed entrare nei sacchi letto.
Dopo un riposo di 15 ore ci svegliammo alle 2.30 del 4 agosto. Alle 4.30 ci rimettemmo in marcia
verso il fondo con il proposito di raggiungerlo con la squadra al completo.
Alle ore 23 del 4 agosto 1967, dopo circa 19 ore di attività, per la prima volta il nome “Italia” era virtualmente inciso sulla parete finale della grotta più profonda del mondo, a quota -1122.
Contrariamente al progetto iniziale, il fondo fu raggiunto solo da due persone. Il tempo impiegato per l’ultima puntata, che ci aveva impedito di acquisire l’obiettivo con la squadra al completo, dipese oltreché dall’impegno tecnico e fisico, da difficoltà di ordine logistico-organizzativo: nel conteggio del materiale da impiegare nell’impresa fu saltato un piccolo pozzo di pochi metri (una decina circa) che si trova in zona Ouragan, ultimo pozzo. Questo imprevisto comportò una serie di problemi dovuti in parte all’obiettiva difficoltà di rimediare in qualche modo cercando di recuperare materiale dai pozzi già armati, e in parte dalle nostre condizioni psicologiche legate alla fatica, alla mancanza di sonno ed ai riflessi ormai rallentati.
In realtà l’errore materiale fu di Pasquini, ma i veri colpevoli fummo noi tutti che, come del resto accadeva un po’ in tutte le nostre attività, condizionati dalla sua personalità carismatica, solitamente delegavamo a lui in massima parte l’organizzazione delle spedizioni (e non solo). Ed anche in quell’occasione così fu. Non mi vergogno ad ammettere, e forse dovrei, che personalmente entrai al Berger conoscendone quasi esclusivamente la profondità totale e sommariamente l’elenco dei pozzi. E così, ad un suo errore o a una sua distrazione o dimenticanza (cosa più unica che rara, peraltro) avrebbe potuto corrispondere una débacle.
Non vorrei, però essere equivocato, e per sgomberare il campo da equivoci intendo sottolineare che Pasquini, nel periodo in cui è stato nell’ambito dello S.C.R., fin dalla sua fondazione, ne è stato l’anima trainante. Il successo della spedizione al Berger, indipendentemente da chi o da quanti abbiano toccato il fondo, è in grandissima parte merito suo.
Giunti al fondo, per ripiegare e risalire al secondo campo, dove avremmo potuto riposare, sarebbero occorse ancora almeno altre 15 ore. Il che fa, in totale, più di 35 ore di attività ininterrotta in quell’ambiente e con il fisico già provato da giorni di permanenza operativa in grotta.
Il 7 agosto dopo ulteriori tre giornate, in piena notte, fummo fuori.
Rammento il classico profumo di terra, erba e muschio che conoscono bene gli speleologi che escono all’esterno dopo un congruo periodo di permanenza sottoterra. E la faccia di un individuo, vagamente somigliante ad una marmotta, grassottello e con guance e naso rubizzo, che tendendomi la mano per aiutarmi a superare gli ultimi metri della cavità, in uno stentato francese con fortissimo accento inglese, si presentò dicendomi di chiamarsi Bob, ma che tutti lo chiamavano Pub, ammiccando ed indicandomi appunto il colorito dei suoi guanciali, indice di una frequentazione assidua ed appassionata dei locali da cui appunto traeva il soprannome.
Sto per concludere, ma vorrei prima narrare alcuni particolari legati sia ai nostri difetti “genetici” che alla figura del Pasquini. Suo malgrado, compiendo una birbonata delle sue, pochi giorni prima che iniziassimo la nostra discesa nella cavità più profonda del mondo, ci mise nelle condizioni di entrare nella storia dell’evoluzione tecnica della speleologia in Italia, se solo avessimo colto correttamente l’occasione e non fossimo stati paralizzati dalla già citata nostra scarsa capacità di autopromozione
Appena giunti sull’altopiano del Vercors, in prossimità dell’ingresso della grotta, Pasquini sparì.
Panico.
Nessuno in pratica era sufficientemente informato sul Gouffre e senza di lui sarebbe stato difficile pensare ad un successo della spedizione. Si seppe poi, molto poi, che era in “fuga romantica”. Fatto sta che per due o tre giorni non ne avemmo notizie. Non avendo nessuno la minima idea di cosa gli fosse capitato, allo scopo di cercare un qualche modo che ci consentisse di contrastare l’imprevisto, mi incaricai, avendo una buona dimestichezza con il francese, di scendere a valle in cerca di Petzl. Il vecchio speleologo (all’epoca, penso con qualche brivido, aveva certamente meno anni di quanti io ne abbia attualmente!) era uno dei responsabili della squadra internazionale che nel ’56 aveva raggiunto per la prima volta il fondo del Berger e di cui aveva fatto parte anche Giorgio Pasquini. Sapevamo che aveva un laboratorio di meccanica (forse sarebbe più esatto definirlo una fumosa bottega di fabbro) nei pressi di Grenoble. Se ci avesse fornito delle informazioni tecniche sulla grotta ci avrebbe potuto mettere in grado di cavarcela da soli nel caso il Pasquini, come temevamo, non fosse ricomparso (in realtà ricomparve, con nostro grande sollievo: appena in tempo per organizzare l’entrata in grotta). Petzl fu molto gentile e dovizioso di particolari interessanti, soprattutto riguardanti la nuova tecnica francese di progressione e di armamento dei pozzi. In quell’occasione vidi su un banco di lavoro degli strani aggeggi in lega di alluminio. L’anziano speleologo mi spiegò che si trattava di prototipi di strumenti che stava progettando per la progressione in grotta. Ne acquistai alcuni esemplari che usammo al Berger e che seguitammo poi ad usare “silenziosamente” in Italia. Sono sopravvissuti per più di venti anni facendo il loro onorato servizio, anche se ormai superati dai nuovi modelli perfezionati in catena di montaggio. Erano diventati dei rari pezzi di archeologia speleologica, si può dire cimeli, che conservavo gelosamente. Fin quando, giunto ad una età adeguata, non ci mise le mani sopra mio figlio Giulio Clodio…
Alcuni anni dopo altri speleologi più fattivi di noi, presentarono ad un congresso una pubblicazione nella quale si spiegava l’uso in grotta di alcuni attrezzi tipo discensori, prusik meccanici per la progressione su sola corda etc.: a noi venne da ridere perché ci sembrava paragonabile ad un manuale sull’uso del coltello per tagliare il burro. Il risultato però fu che probabilmente molti ignorano che anche questo è un nostro primato: siamo stati i primi, nel 1967, ad introdurre nella speleologia italiana questo tipo di progressione, insieme alle tecniche di armamento su “spit”, e nessuno, forse, lo sa.
Ancorché lo ritenga tautologico, in conclusione desidero precisare che tutte queste mie considerazioni rappresentano il mio punto di vista e che potrebbero anche non essere condivise da tutti coloro che parteciparono alla spedizione.
Ritengo infine di fare cosa utile allegando un articolo pubblicato su Quadrante, la rivista delle Forze Armate, ad opera di una nostra socia, Roretta Giordano, che ci raggiunse sull’altopiano del Vercors per raccogliere all’uscita della grotta le impressioni “a caldo” della nostra impresa.
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